Bassa autostima: cosa si nasconde dietro il senso di inadeguatezza

Pieter Brueghel il Vecchio, Children’s Games: quadro con bambini che giocano in diverse attività, rappresentazione della vivacità e della difficoltà di concentrazione simili ai sintomi dell’ADHD.

L’autostima come parola del nostro tempo

“Autostima” è una di quelle parole che oggi circolano ovunque: nei social, nei libri di crescita personale, nelle frasi motivazionali. Tutti sembrano sapere che la bassa autostima è un problema e che occorre “imparare a credere in se stessi”.
Eppure, proprio questa semplicità apparente nasconde qualcosa. Il linguaggio comune riduce spesso la mancanza di autostima a una questione di forza di volontà, come se bastasse “pensare positivo” per sentirsi meglio. Ma chi vive davvero una scarsa autostima sa che non si tratta solo di pensieri negativi, bensì di un sentimento più profondo di inadeguatezza, di distanza da sé.

Che cosa si intende quando si parla di bassa autostima

Nella lingua di tutti i giorni, dire di avere una bassa autostima significa sentirsi inferiori, inadeguati, indegni di affetto o di riconoscimento. Si tratta di una sensazione che può accompagnare molte esperienze: il fallimento in un progetto, una relazione difficile, un confronto con l’immagine ideale che si ha di sé.

Le cause della bassa autostima vengono spesso cercate nel passato, nell’educazione, nei giudizi ricevuti. È una prospettiva comprensibile, ma rischia di restare in superficie. Perché il problema non è soltanto “avere ricevuto poche conferme”: il punto è che la conferma da parte dell’altro non basta mai. Anche chi è molto apprezzato può sentirsi vuoto o insufficiente. Da dove viene allora questo senso di mancanza?

Oltre il “valutarsi poco”: lo sguardo della psicoanalisi

Dal punto di vista psicoanalitico, il tema della bassa autostima non riguarda tanto la misura del proprio valore, quanto il rapporto con l’immagine di sé.
Freud, e poi Lacan, hanno mostrato come l’Io si costituisca attraverso l’immagine riflessa nello sguardo dell’altro: l’“autostima” dipende dunque da un riconoscimento che è sempre esterno, mai pienamente posseduto.

Quando diciamo di “non avere autostima”, stiamo dicendo che non ci riconosciamo in quell’immagine ideale che pensiamo di dover incarnare. La sofferenza nasce proprio da questa distanza: fra ciò che siamo e ciò che crediamo di dover essere.
Per questo non si tratta di “stimarsi di più”, ma di interrogare quell’immagine stessa — da dove viene, chi la chiede, quale desiderio la sostiene.

Children’s Games di Pieter Brueghel il Vecchio: bambini che giocano, energia e difficoltà di concentrazione tipiche dell’ADHD.

Giochi di bambini è un dipinto a olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio, datato 1560 e conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna.

L’autostima, l’ideale e il desiderio

In ognuno di noi c’è un punto di riferimento che potremmo chiamare Ideale dell’Io: un modello di perfezione, spesso interiorizzato da figure significative o dall’immaginario collettivo. È rispetto a questo ideale che misuriamo il nostro valore.
La scarsa autostima è dunque il rovescio di un ideale troppo alto, o troppo rigido, a cui non possiamo corrispondere.

Ma l’ideale non è il desiderio. L’ideale impone, il desiderio orienta. Il primo chiede di essere all’altezza; il secondo chiede di essere vivi.
Nel lavoro analitico, ciò che può cambiare non è tanto la misura della propria autostima, quanto il rapporto con il proprio desiderio — cioè con ciò che, al di là dei giudizi e degli ideali, muove davvero ciascuno.

Quando la “bassa autostima” è una forma di sofferenza che richiede ascolto

Molte persone cercano esercizi o tecniche per aumentare la propria autostima. Ma spesso, dietro a questa ricerca, c’è il tentativo di colmare un vuoto che non si lascia riempire.
Non si tratta di “mancanza di fiducia”, ma di una sofferenza legata al rapporto con se stessi e con l’altro. In questi casi, ciò che serve non è una spinta motivazionale, bensì un luogo in cui poter dire qualcosa di questa mancanza — un ascolto che permetta di scoprire da dove viene il proprio senso di inadeguatezza e quale parola può attraversarlo.

Ritrovare valore non è “stimarsi”, ma riconoscersi

Un percorso psicologico non “insegna ad avere più autostima”: permette piuttosto di interrogare che cosa si intende per valore, riconoscimento, desiderio.
Quando il discorso sull’autostima si sposta da un’idea di forza a un lavoro di parola, diventa possibile non “valersi di più”, ma valersi di sé.
Non per essere all’altezza di un ideale, ma per occupare il proprio posto — quello che non si misura, ma si scopre.

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